13/07/12

Rock of Ages

Rock of Ages
Rock of Ages (Usa, 2012)
Regia Adam Shankman


Los Angeles, 1987. Una ragazza di provincia di nome Sherry arriva nella Città degli Angeli in cerca di fortuna, con in tasca un sogno: diventare una cantante. 
Qui incontra il giovane Drew, aspirante rock star. I due si innamorano all'istante e iniziano a lavorare insieme al Bourbon Room, locale cult della scena musicale losangelina, prossimo  alla demolizione. Nel frattempo, la moglie del sindaco prepara la sua battaglia per cancellare il rock'n'roll e i suoi peccaminosi fanatici. 
Le vicende della coppia si intrecciano con quelle di altri personaggi: i gestori del Bourbon, lungocriniti oppressi dai debiti, e il leggendario Stacee Jaxx, ex cantante degli Arsenal, ancora idolatrato dai fans, ma seguito da un manager senza scrupoli completamente votato al Dio Denaro.
Nato a Broadway, Rock of Ages è un musical di successo che gira i teatri di mezzo mondo dal 2006, diretto da Kristin Hanggi. Costruito intorno a pezzi del più classico rock anni '80, si ispira in particolare allo stile glam metal di alcune delle band più note. 
La versione cinematografica è stata girata rispettando abbastanza fedelmente il musical originale, e si pone, usando il pretesto della storia d'amore fra teenagers, come il racconto-revival di un momento storico sia musicale che culturale. 
L'epoca indimenticata dell'hair metal, in cui coesistevano lustrini, borchie e capelli lunghi, corrisponde anche a un altro modo di fare cinema, che vedeva imperare il teen-drama e trionfare l'happy end.
E' un prodotto ben costruito, considerando anche la cura nella riproduzione dei dettagli: costumi, voci, scenografie, tutto riproposto con precisione svizzera.
Le tecnologie hanno permesso di creare effetti suggestivi all'interno del film (montaggi, dissolvenze, fotografia abbagliante) che avvolgono lo spettatore regalando un'energia unica. Shankman, il regista, si era già cimentato con un altro musical, nel 2007: Hairspray, remake del musical Grasso è bello, di John Waters, assieme ad artisti del calibro di Travolta e della Pfeiffer. 
Anche qui riunisce un cast ben assortito, con un Tom Cruise (Eyes wide shut, La guerra dei mondi) aka Stacee Jaxx in m-a-g-n-i-f-i-c-a forma, meritevole di un plauso per la capacità di mettersi sempre in gioco come tutti i veri attori dovrebbero fare; la coppia di giovani piccioncini è formata dal messicano Diego Boneta, alle prime esperienze sul grande schermo ma molto promettente, e la spigliata Julianne Hough (Harry Potter e la pietra filosofale, Burlesque). Un invecchiato e divertente Alec Baldwin (Caccia a ottobre rosso, The Aviator) e il poliedrico attore, cantante e conduttore radiofonico Russel Brand interpretano rispettivamente  Dennis, il proprietario del Bourbon, e Lonny, suo socio. 
Nei ruoli secondari, ma non di minor rilevanza, troviamo una splendente Catherine Zeta-Jones (The Terminal, Chicago) che interpreta Patricia Whitmore, la bisbetica first lady; la cantante R&B Mary J.Blige che ci sorprende piacevolmente nel ruolo minore di Justice, proprietaria di un night club, e il grande Paul Giamatti (La versione di Barney, Le idi di marzo) nelle vesti del manager di Stacee.
Nonostante mi senta di dover sottolineare, unica nota dolente, che i due giovanissimi innamorati cantino un po' troppo alla High School Musical, riconosco a tutti gli attori, pienamente sul pezzo, la capacità di saper lavorare coralmente per delineare un film piacevolissimo.
Sono due ore veloci, senza dubbio apprezzabili dal grande pubblico, e un vero love at first sight per i cultori del genere (e qui mi ci metto) che, terminati tutti i titoli di coda, non smetteranno di cantare le hits nemmeno una volta usciti dalla sala (e nemmeno il giorno dopo o la settimana dopo).
Irrefrenabile è stato il desiderio di possedere la colonna sonora per rivivere ogni scena, e per citare solo alcuni nomi, troverete brani di Def Leppard, Guns N' Roses, Joan Jett, Twisted Sister, Foreigner, Bon Jovi, Whitesnake, Poison e Pat Benatar.
Da segnalare la scelta, di gran gusto, di inserire nel film alcuni mash-up molto riusciti, fondendo tra loro brani già noti (un esempio? Sister Christian/Just like paradise/Nothin' but a good time).
In conclusione, ho voluto scrivere la mia recensione a mente fredda, temendo che l'entusiasmo da day after potesse falsare il mio giudizio, ma a distanza di quasi due settimane, lo confermo: questo è più di un adattamento cinematografico, molto di più di un omaggio al Sunset Strip di un'epoca lontana: è passione, carica e rock, una vera botta di vita. Caldamente consigliato.

12/07/12

La pelle che abito

La pelle che abito
La piel que habito (Spagna, 2011)
Regia Pedro Almodóvar




Robert Ledgard è un chirurgo plastico spagnolo di grande fama. Abita con la fidata domestica Marilia nella sua lussuosa residenza, che è anche una clinica privata. 
La moglie dell'uomo, sfigurata da un incidente automobilistico che l'ha carbonizzata, si è tolta la vita lanciandosi da una finestra, appena dopo aver visto accidentalmente il suo riflesso in un vetro; la loro unica figlia, intenta a giocare in giardino, vede la madre precipitare e rimane traumatizzata. Il colpo di grazia arriva ad una festa di matrimonio, quando la ragazza, già psichicamente provata, viene stuprata da uno degli invitati, e decide per questo di suicidarsi come la madre. 
Robert, nel frattempo impegnato nello studio e nella realizzazione di una epidermide transgenica d'avanguardia che possa sostituire quella umana, ha perso in pochi anni entrambe le donne che amava, ma il dolore che distrugge la sua vita non gli impedisce di pianificare lucidamente la sua vendetta, messa in opera, non a caso, con chirurgica perizia. 
Poco a poco scoprirete come missione e ossessione si confondano nella rivincita perversa e raccapricciante del chirurgo, e ripenserete all'espressione di Goyana memoria "il sonno della ragione genera mostri".
Il regista sceglie per questo horror un cast iberico al 100%: il Ledgard dilaniato dall'amour fou è Antonio Banderas (Desperado, La leggenda di Zorro) attore degno di rispetto e feticcio di Almodovar negli anni '80, mentre Vera è interpretata dalla bella Elena Anaya, classe 1975, che vanta una filmografia consistente sia in patria che all'estero (Lucia y el sexo, Val Helsing). Qualcuno si ricorderà di Marisa Paredes, la governante Marilia, per averla già vista in Tutto su mia madre, sempre di Almodovar.
Un thriller di carattere, liberamente tratto dal romanzo Mygale (1995) di Thierry Jonquet, scrittore parigino. 
Il protagonista, algido e di poche parole, si muove in ambienti ampi e asettici, mentre le inquadrature della cinepresa scandagliano cose e persone con maniacale attenzione. Almodovar si cimenta in questa opera con un genere che, sottoposto alla critica, non convince completamente per il suo stile eccessivamente manieristico. Il regista, forse a corto di ispirazione, si rifà agli storici Hammer del trentennio d'oro, inserendo nei 117' di pellicola simbolismi a profusione. 
Che sia stanchezza o strizzatina d'occhio alle logiche commerciali del periodo, poco importa. Il risultato è una storia che da Almodovar non ti aspetti, capace di divertire senza ridere mai, con l'entrata in scena dei suoi tradizionali e irrinunciabili elementi grotteschi, come il delinquente vestito da tigre. 
Furbi e ragionati flashback oliano il film, nonostante la lentezza del racconto.
Alcuni sostengono che gli aficionados gradiranno, e gli altri forse non troppo. Dissento, e vi segnalo che pur non amando Almodovar, riconosco del potenziale ne La piel que habito. Superata la soglia della deontologia, infatti, sarà davvero curioso addentrarsi nella psicologia del personaggio, e notare come nella totale assenza di etica, il film suggerisca invece molte riflessioni sull'abuso e la punizione, la perdita e infine il ritrovamento (vero o presunto?) di identità sessuale.
La cura della colonna sonora è affidata a uno dei più stimati professionisti spagnoli del settore, Alberto Iglesias, compositore pluripremiato di musiche per il cinema e per il balletto. 
Come talvolta accade per i film dall'agile narrazione e dall'alto tasso di perfezionismo estetico, anche questo presenta una pecca per quanto concerne i dialoghi: banalotti, asciutti e un poco prevedibili; si poteva sicuramente fare di meglio. 
Il finale melodrammatico da repertorio sintetizza e conferma l'essenza bizzarra e angosciosa di Don Pedro, ricordando ahimè la sua tendenza all'autoreferenzialità: uno dei tratti del regista meno graditi da chi scrive.
Nel complesso si è costruito un film delirante e intrigante, capace di svelare nuove prospettive e offrire molti spunti apprezzabili.

23/05/12

Dark Shadows

Dark Shadows
Dark Shadows (USA, 2012)
Regia Tim Burton






Nel 1752 i coniugi Collins salpano da Liverpool insieme al figlio Barnabas, in cerca di fortuna negli Stati Uniti. 
Due decenni dopo, Barnabas Collins è un ricchissimo e incallito playboy; vive a Collinwood, la magnifica villa di famiglia nella città di Collinsport. Disgraziatamente, sbaglierà a sedurre e abbandonare la donna sbagliata, Angelique Brouchard, che è in realtà una malvagia strega senza scrupoli. L'arpia si vendicherà trasformandolo in un vampiro e rinchiudendolo in una cripta dove resterà fino a quando verrà accidentalmente liberato, duecento anni più tardi.
Barnabas, uscito finalmente dalla tomba, decide di far ritorno alla magione appartenuta ai Collins. Varcata la soglia di casa, dovrà fare i conti con dei bizzarri discendenti e tutti i fantasmi del suo passato.
Questa commedia horror è tratta da una serie televisiva cult americana, andata in onda negli anni '60, pressochè sconosciuta in Italia; ad acquistarne i diritti furono la Infinitum Nihil (casa di produzione fondata da Johnny Depp), la Warner Bros e la GK Films (il pluripremiato CEO Graham King ha alle spalle una lunga collaborazione con Scorsese).
La lavorazione del film è iniziata addirittura nel 2007, ed è proseguita tra parecchie battute d'arresto (una su tutte, lo sciopero degli sceneggiatori tra il 2007 e  il 2008), fino al 2011, anno in cui è stato finalmente girato.
A interpretare il redivivo Barnabas, neanche a dirlo, è ancora lui: John Christopher Depp II (Ed Wood, Pirati dei Caraibi); altra presenza familiare è la dottoressa Hoffman, Helena Bonham Carter (Il discorso del re, Planet of the Apes- Il pianeta delle scimmie), moglie di Burton; la perfida strega è Eva Green (The Dreamers, La bussola d'oro), che si fa notare più per le mise succinte che per la recitazione; Michelle Pfeiffer (Ladyhawke, Le verità nascoste) è il fiore all'occhiello del filmnei panni dell'incantevole e determinata Elizabeth (è stata addirittura lei a spingere per interpretarne il ruolo); ritroviamo in Carolyn Stoddard la teenager Chloe Moretz, già vista in Kick-Ass e Hugo Cabret; vi segnalo la giovane e denutrita interprete di Josette/Victoria, Isabella Heathcote, più che altro per una curiosità: si è fatta notare per aver recitato in Neighbours, una soap opera australiana sul cui format si basa il partenopeo Un posto al sole, nonchè discreta palestra per alcuni attori e cantanti ora noti: Russel Crowe, Holly Valance, Natalie Imbruglia e Kylie Minogue.
I camei di Christopher Lee (60 anni di carriera portati con disinvoltura, attore amatissimo dalla Hammer  Film Productions) e quello del cantante rock Alice Cooper, concorrono ad impreziosire la pellicola. 
Il cast di tutto rispetto parrebbe lasciar fiutare un film promettente: scordatevelo, mai presagio fu più inesatto di questo. Non so da che parte cominciare per esprimere tutta la delusione davanti a questi 113' di totale inconsistenza. 
Partendo dal regista, è evidente come il compianto Burton di Edward mani di forbice e Big Fish abbia lasciato il posto a un direttore artistico tutto estetica e clichè, che già aveva scandalizzato con un  ridicolo Alice in Wonderland. Quella che sembrava un'impressione, è ora una certezza ben fondata: Burton si è piegato miseramente alle logiche commerciali, declinando la sua carriera al merchandising e a film il cui successo al box office è garantito solo dalla presenza del suo nome sulla locandina, quel che si dice "vivere di rendita".
La caduta verso il basso coinvolge naturalmente anche il partner Depp, che, ridotto a macchietta, è impegnato in un ruolo caricaturale e privo di qualsiasi spessore psicologico. Tutto già visto: lupi mannari, vampiri, scene di passione al limite del grottesco, tributi non voluti a La morte ti fa bella, citazioni di ogni genere che non innalzano il film di un centimetro, ma ne fanno una parodia non desiderata dei recenti Twilight & fratelli. 
Più che per la presenza di elementi validi, l'opera si fa amaramente notare per la loro ridondante assenza. 
Lontano anni luce dalle atmosfere fiabesche e dai personaggi finemente indagati, dalla recherche registica improntata all'originalità delle scelte e dalla profondità di dialoghi, tutto sembra confezionato ad arte per rubare il denaro dal portafogli dell'incauto spettatore, il cui profilo ideale, nel quale mi riconosco, appartiene al "nostalgico assetato di novità burtoniane". L'uscita in contemporanea del film negli USA e in Italia, preceduta da una efficace campagna pubblicitaria, astuta e diversificata, (un esempio? In collaborazione con la Croce Rossa Americana, i donatori di sangue ottenevano negli Stati Uniti i biglietti gratuiti per la premiere) ha sbancato il botteghino e ha coinciso, secondo chi scrive, con un ladrocinio di proporzioni epiche. 
Una storia raccontata in modo confuso, dove persino il ruolo del protagonista è incerto; nei primi minuti viene da chiedersi se la nostra attenzione debba essere catturata più dall'insipida e triste ragazzina di provincia, o dal riccastro vampiro. Veniamo condotti attraverso una narrazione traballante basata su una storia d'amore vecchia come il cucco, della quale perdiamo dei pezzi per strada, e i personaggi buttati lì a casaccio non aiutano di certo (vedi Victoria, vedi la mamma del ragazzino). 
Niente di credibile per questo film (leggi anche "buco nell'acqua"), di cui salviamo solo la graziosa apparenza, fatta di fiamminghi dettagli pittorici e il vago sentore dell'allure fiabesca, marchio di fabbrica di Burton. Ne ho sentito parlare come di un acclamato dark-drama gotico, ma non dimentichiamoci, per cortesia, che per guadagnarsi l'accezione "gotico" non sono sufficienti manieri infestati e Dracula innamorati.
La cosa buona che consegna al film un'idea di personalità è la colonna sonora, tutta farina del sacco di Elfman (già citato nella recensione su Edward mani di forbice), che diverte il pubblico con brani inaspettati e sepolti nei ricordi dei più, in 21 tracks che spaziano da Donovan a Iggy Pop, passando da The Carpenters fino a Barry White, oltre al sopracitato Alice Cooper. 
Dato che questo lungometraggio non sarà consegnato alla storia, ve ne consiglio la visione solo a patto che sia gratuita, e che rispettiate la natura di questo (rivelatosi) ordinario film d'intrattenimento,  spegnendo il cervello.

18/05/12

Edward mani di forbice

Edward mani di forbice
Edward Scissorhands (USA, 1990)
Regia Tim Burton




Chi legge Il Grande Carro e lo segue, con mio grande piacere, fin dall'inizio, ha diritto di sapere che questo film porta con sé la grande responsabilità di avermi iniziata agli incubi.
Quando lo vidi la prima volta, da bambina, ero terrorizzata da quell'uomo nero con lame al posto delle dita, e mettevo la mano davanti agli occhi, guardando il film attraverso la fessurina tra il dito medio e l'anulare: la dimostrazione più elementare di quanto l'essere umano rifiuti la paura e al contempo ne sia attratto.
Recentemente mi è capitato di rivederlo, e con occhi nuovi ho scoperto un film-parabola, ricco e di grande dolcezza, imperniato sul diritto alla diversità.
Immaginate una nonna che spiega alla nipotina l'origine della neve; un coro di voci bianche vi catapulterà da questo momento in una dimensione fiabesca. 
Un inventore eccentrico e anziano sta terminando amorevolmente la sua ultima creazione, un robot con le fattezze di un ragazzo, a cui ha insegnato la gentilezza, le buone maniere, e che sembra dotato di uno spirito buono e romantico. 
Tragicamente, il padre della creatura muore prima ancora di aver dato a Edward delle vere mani, al posto delle cesoie affilate che si ritrova. Passano molti anni, fino a quando Peggy, una rappresentante di cosmetici, arriva al castello e lo incontra. Intenerita da quel grottesco mostro buono, lo porta a casa, dalla sua famiglia. Superate le prime difficoltà quotidiane, Edward si farà benvolere dall'intero quartiere, plasmando siepi con le forme più stravaganti e tagliando artisticamente i capelli a tutte le signore. Tutto sembra andare per il meglio, fino a quando Edward si innamora di Kim, la bella e già fidanzata figlia di Peggy. La ragazza, inizialmente spaventata da lui, cambierà i suoi sentimenti col passare del tempo, stravolgendo infaustamente il destino e la storia dell'incompleto Edward, un uomo incredibilmente gentile.
Il giovanissimo Johnny Depp (La fabbrica di cioccolato, Donnie Brasco) sul quale si scommette per l'intera riuscita del film, recita il ruolo dell'automa col volto di un moderno Pierrot. Il successo dell'interpretazione lo si deve in particolare all'espressività, dato che le parole pronunciate da Depp in tutto il film sono solo 169. Accanto a lui, una bella Winona Ryder (Ragazze Interrotte, Dracula di Bram Stoker) che convince anche da bionda. Da ricordare le interpretazioni di Peggy alias Dianne Wiest (Hannah e le sue sorelle, L'uomo che sussurrava ai cavalli) e del creatore di Edward, Vincent Price; il prolifico attore, ritenuto l'alternativa statunitense a Boris Karloff, dimostrò grandi capacità recitative, e approdò al genere horror negli anni cinquanta; ricordo La casa dei fantasmi, di cui nel 1999 è stato fatto il remake con Geoffrey Rush, e La maschera di cera, girato e distribuito nel 1953 in formato stereoscopico, l'odierno 3D. 
Edward mani di forbice è stato molto acclamato dalla critica, e si è guadagnato un buon numero di premi e nominations; al box office purtroppo il film non venne capito e non riscosse un gran successo, rifacendosi poi nella vendita e nel noleggio del VHS.
Le origini del personaggio vanno ricercate nell'infanzia di Burton, che rifletteva nei suoi disegni la solitudine e l'isolamento di bambino. Una nota di merito a tal proposito va alla sceneggiatrice Caroline Thompson, visionaria almeno quanto Burton, e meritevole di aver tradotto in parole dei disegni infantili. 
L'Edward che conosciamo è stato ispirato nel concreto dal look di Robert Smith, voce dei Cure. Altri riferimenti al cantante li ritroviamo anche ultimamente, come dimostra il Penn di This must be the place. In generale pare che lo stile malinconico, poco rassicurante e bizzarro dell'hair metal sia piaciuto tanto a questi registi, da ritenerlo la caratterizzazione ideale per i loro personaggi.
Questa pellicola non è tra le più recenti di Burton, ma rimane a mio avviso la sua opera più rappresentativa. Il regista era appena uscito dal periodo dei consensi e della popolarità grazie a Batman, e non sentendosi più imbrigliato nelle dure imposizioni dei produttori, lavorò con grande serenità, liberando il suo estro creativo. Le influenze sono riconoscibili, anche se Burton non ne fa mistero. Passiamo dal Frankenstein di Mary Shelley, con la creazione di un essere umano in bilico tra il mostruoso e il grottesco, fino a La bella e la bestia, in cui lo sfortunato essere viene inseguito con i forconi dalla folla impaurita e ignorante. Già, il problema è proprio la gente, cui Burton muove accuse precise, rivolgendosi alla middle class impomatata delle famiglie wasp. Il film infatti, dopo le prime inquadrature dell'eremo gotico di Edward, varca le soglie che conducono dal sogno alla realtà, passando al quartiere falsamente tollerante, incapace di accettare la diversità. Edward è il simbolo della difformità. Vuole rappresentare tutti gli invisibili che, mossi da umano desiderio di approvazione e smania di consenso, combattono una guerra quotidiana contro l'incapacità di superare le apparenze.
Ad accompagnare i cambi di registro c'è la fotografia, di cui fa un eccelso uso il fidato collaboratore di Burton, Stefan Czapsky. Dal castello e la sua  materialità austera in scala di grigi, passiamo alle sfumature lunari del laboratorio, fino ai colori accesi delle atmosfere del quartiere (squisitamente riferite al ventennio '50-'70). 
L'ottimo risultato della OST non fa rimpiangere il sopracitato Robert Smith, al quale il regista chiese in un primo momento di comporre la colonna sonora; egli rifiutò poiché già impegnato con altri progetti musicali. La scelta ricadde allora su un ispirato e apprezzatissimo Danny Elfman (Spider-Man, Wanted). Compose i diversi temi del film, dichiarando di aver sperato che la lavorazione non terminasse mai, tanto fu arricchente e appagante. Anche grazie al suo commento musicale la storia prende corpo, regalandoci momenti di estasi evocativa e immaginifica, come suggerisce il link che vi propongo: Edward mani di forbice - La neve.
In un parallelismo crudo e doloroso, si manifesta tutta l'impossibilità di unire fantasia e realtà. I colori sgargianti e la routine rassicurante degli schemi convenzionali diventano estremamente banali, e si contrappongono con durezza alla tetraggine di un'umanità totalmente livellata. Il buon Edward ha qualcosa che molti esseri umani hanno perso, e nonostante la spietatezza e l'umiliazione che gli sono state riservate, lui non si risparmierà nemmeno alla fine, regalando a Kim e a tutti noi l'incantevole condanna di un sogno.
Vi troverete davanti a una fiaba nera di un centinaio di minuti, di quelle cattive, come solo le vere fiabe riescono a essere; qualche battuta qua e là riesce a stemperarne la drammaticità, senza mai far cadere la storia nel ridicolo.
Se siete affamati di poesia, vi consiglierei di guardare (o riguardare, come è successo a me) questa pellicola trapunta di originalità, per scorgervi l'amaro racconto latore di denuncia e d'amore, oltre che il più classico degli intrecci romantici in confezione fantasy. 

12/05/12

Shutter Island

Shutter Island
Shutter Island (USA, 2010)
Regia di Martin Scorsese




E' il 1954. Nell'ospedale psichiatrico di Ashecliffe, a Shutter Island, non arrivano curiosi nè visitatori. Siamo al largo di Boston, e l'isola è costantemente colpita da violenti uragani; per questa ragione risulta praticamente impossibile anche fuggirne. La fortezza abbandonata dall'esercito, è destinata ad ospitare malati gravi e pericolosi. Il luogo, sinistro e inospitale, è stato però teatro di una misteriosa quanto inspiegabile sparizione: una paziente tra le più temibili, Rachel Solando, si è volatilizzata senza lasciare traccia. La donna, che presentava disturbi maniaco depressivi, si trovava in cura dal direttore del manicomio, l'indecifrabile dottor Cawley, dopo aver annegato i tre figli. Per indagare sulla sua fuga arrivano sull'isola due agenti federali, Teddy Daniels e Chuck Aule. 
I due sbarcano a Shutter Island anche con una seconda missione, ufficiosa: verificare e riportare ai loro superiori quali siano i metodi terapeutici utilizzati per la cura dei pazienti. Inizialmente accolti con diffidenza dal personale di Ashecliffe, i due uomini faticheranno per trovare qualche indizio. La situazione è resa ancor più difficile dall'inquietudine di Daniels, che, duramente provato dal secondo conflitto mondiale, sospetta che dietro l'istituto psichiatrico si celi in realtà un orribile centro nazista per la sperimentazione delle torture. La ricerca affannosa della verità lo condurrà attraverso i tre labirintici padiglioni della prigione-trappola; i suoi cunicoli, i sotterranei e le sue oscure celle d'isolamento destabilizzeranno l'agente, riportandogli alla mente il lancinante dolore di una ferita mai cicatrizzata: la perdita della moglie, carbonizzata nell'incendio del loro appartamento.
L'indagine sulla scomparsa della Solando porterà Teddy al confronto con i fantasmi del suo passato, attraverso le scatole cinesi di un mistero irrisolvibile, in un gioco al massacro psicologico. Quando la verità comincia a profilarsi le cose si complicano, tanto che Daniels inizierà a pensare al complotto spionaggistico. Qualcuno sembra infatti dirigere gli eventi come un burattinaio, e pare volere il suo silenzio. L'agente perde le tracce di Aule, avverte il pericolo e sa di non potersi più fidare di nessuno. Nel frattempo, l'ennesimo nubifragio si avvicina, i contatti col mondo esterno si arrestano, così come l'energia elettrica e gli impianti di sicurezza.
In casi del genere, le celle ad Ashecliffe sono programmate per aprirsi. Qualcosa vi farà accapponare la pelle. Pensavate forse di sapere cosa fosse la paranoia? 
Ah, che film. E naturalmente un cast di grandi nomi: nei panni di Teddy Daniels un eccellente Leonardo Di Caprio (Inception, Gangs of New York), entrato di diritto nel Pantheon dei grandi attori contemporanei, qui alla quarta vittoriosa simbiosi con Scorsese; in quelli di Chuck Aule un attore abituato ai consensi della critica, Mark Ruffalo (Zodiac, I ragazzi stanno bene, The Avengers); l'enigmatico dottor Cawley è una conferma, l'inglese Ben Kingsley (Schindler's List, Slevin - Patto Criminale)
Pur avendo interpretato ruoli secondari è doveroso citare la recitazione dello svedese Max Von Sydow, il dottor Naerhing, icona dell'insuperabile Ingmar Bergman (che lo volle in 14 pellicole), e quella della giovane e plupripremiata Michelle WIlliams (Marilyn, I segreti di Brokeback Mountain) nel ruolo della defunta moglie di Daniels.
La storia è tratta da un romanzo (ma va?), di Dennis Lehane, L'isola della paura, edito nel 2003. L'autore statunitense di origini irlandesi ha scritto anche Mystic River e Gone Baby Gone, che lo hanno consacrato definitivamente come mostro del thriller psicologico. Dei due libri appena citati sono state girate le fortunate traduzioni cinematografiche, dirette rispettivamente da Clint Eastwood e Ben Affleck.
Il film, ben accolto dalla critica e meritevole di un gran successo al botteghino, ha  invece risentito sfavorevolmente della data di uscita per quanto concerne il palmarès. La Paramount, infatti, dovette posticipare l'uscita statunitense del film per questioni finanziarie, costringendo così questa perla registica all'esclusione dagli Oscar.
E' infatti una regia confezionata con tutti i crismi, questa del geniale Scorsese, che mai delude e mai annoia. Il regista si è sentito attratto dal romanzo e dalle atmosfere di terrore e paranoia che è in grado di trasmettere, specialmente avendole vissute in prima persona nel decennio post-bellico. Si interroga su quanto forte sia l'elemento violenza nell'essere umano, e quale sia il prezzo da pagare per le proprie colpe.
Shutter Island attinge dichiaratamente dal classico cinema losangelino, i cui conoscitori profondi avranno notato i riferimenti. Le catene della colpa (Tourneur, 1947), Vertigine (Preminger, 1944) in cui si parla di uno scambio d'identità, e soprattutto Il corridoio della paura (Fuller, 1963) ambientato in un ospedale psichiatrico nel quale si deve risolvere un caso d'omicidio. Tangibile è anche l'influenza del più rappresentativo e allucinatorio espressionismo cinematografico tedesco, da Lang (Il dottor Mabuse, Metropolis) al manifesto fisionomista del movimento espressionista diretto da Wiene, Il gabinetto del dottor Caligari. 
Scorsese, non pago dei fantasiosi suggerimenti offerti dalla gamma di film a disposizione,  decide di calcare istericamente la mano, studiando l'angoscioso documentario Titicut Follies (Wiseman, 1966), in cui vengono mostrate le condizioni delle cliniche psichiatriche e impietosamente analizzati medici e pazienti, la cui distinzione è a tratti sconvolgentemente confusa.
Le musiche sono state curate e assemblate da Robbie Robertson, fedele collaboratore del regista, che prediligendo una scelta eterogenea e di incontro tra il classico e il contemporaneo, opta per Mahler, il "musician non-musician" Brian Eno, un'orchestra diretta da Abbado e una reinterpretazione di John Cage, tra gli altri.
Consegnare questo film a un genere di riferimento è davvero arduo, date le peculiarità stilistiche.
Posso affermare che il forte senso di straniamento veicolato dalla pellicola, insieme all'indagine approfondita nei meandri della malattia mentale, la suspense tipica del thriller labirintico, e il richiamo al gotico mitteleuropeo, ne fanno un'opera ad alto contenuto tematico e di sicuro impatto sullo spettatore. 
Il climax raggiunto al termine delle 2h20' vi farà credere di trovarvi all'interno di un sogno macabro, in cui sovrana regnerà la tensione. 
Il regista ispirato, consapevole, e divertito dalla narrazione restituisce al suo pubblico un meccanismo di precisione in piena linea con le sue aspettative: la distorsione della realtà e il disorientamento dello spettatore.
Terminerete il film tirando senz'altro le fila del racconto, ma se si sarà trattato di un vero colpo di fulmine, come nel mio caso, avvertirete l'urgenza di una seconda visione, per apprezzare la pellicola in tutti i suoi affascinanti dettagli. 
Siete pronti per entrare nell'incubo?